Un brano tratto da "leggimi forte" di Bruno tognolini.
Un adulto che legge un bel libro ha l’impressione di disincarnarsi, di perdere corporeità: si dice che "non è più lì". E invece il suo corpo, ben presente e pesante, continua a narrare la storia di quella lettura. Che stia seduto da solo in casa o in un bus affollato, sdraiato in un ospedale o su un’amaca in riva al mare, quella storia è sempre un dialogo frontale, a due personaggi: lui e il libro, che si fronteggiano ostinati. Per un adulto che legge a un bambino la storia dei corpi è diversa, è narrata a tre voci: due corpi e un libro, con tutte le reciproche diverse posizioni.
Con mia figlia, come quasi sempre accade, dapprima fu il pieno contatto, un corpo a corpo che a stento ammetteva fisicamente il libro: lei piccolissima in braccio, schiena contro il mio petto, e il libro nelle mani del papà, che con un solo gesto lo reggeva e lo offriva – schermo di meraviglia davanti a entrambi – perché lei potesse vedere le figure, che riempivano trionfanti gran parte di quelle antiche letture.
Poi, nella seconda era, eccoci entrambi seduti per terra – il regno inferiore dei bambini dove alcuni adulti meritevoli sono ammessi – e il libro squadernato davanti. Ora non eravamo più abbracciati, col libro intrecciato fra noi: un cammino di separazione era partito. Ma eravamo pur sempre laterali l’un l’altro, fianco a fianco, e il libro era ancora frontale, ancora un mondo unico davanti a tutti e due.
Passano i mesi, la figlia cresce: non c’è più tanto bisogno di stare abbracciati. Anche le storie crescono nei libri, sopravanzano le figure: non c’è più tanto bisogno di guardare. Il cammino di separazione progredisce: io seduto, vicino al letto, il libro poggiato sul comodino, il più possibile vicino a lei. Ma lei non lo guarda più, guarda altrove. Non siamo più laterali, fianco a fianco, a fronteggiare il libro, ma frontali, l’una davanti all’altro, e il libro è scivolato in mezzo a noi: non più schermo di proiezione ma confine, che come tutti i confini separa ed unisce.
Passano altri anni, si aprono altre ere. Per caso, per gioco, dovendo cambiare il letto, mia figlia ne scelse uno alto, più o meno ad altezza del mio petto, con sotto un irresistibile recesso dove annidare magazzini di giocattoli e tane d’avventura. Confesso che, come altre volte di fronte a mutamenti repentini nelle abitudini della paternità, ho patito un momento di sconcerto: ora come leggiamo? Dopo avere tentato un impervio sgabello alto, tipo quelli dei bar, su cui mi appollaiavo per tentare di restare all’altezza del suo viso, mi sono arreso a una più comoda sedia al capezzale. Ma lei non mi vedeva quasi più: più grande, più sola, ma sempre con me, ascoltando la mia voce che restava – quella sì – vicina e presente, guardava il muro e altre cose che dirò, e le figure e gli scenari d’aria pura che il teatro invisibile della voce le spalancava davanti.
Ora mia figlia è grande, ha quindici anni, ha un letto ancora più alto a casa mia, su cui s’arrampica con una scala; e sotto cui sta un piccolo divano, dove io talvolta ancora siedo e leggo. Non la vedo, e tendo a leggere forte perché temo che mi senta anche poco. È lassù, per conto suo. È il cammino dei figli, così dev’essere. Questa è la storia di quel distacco naturale, raccontata dai corpi che leggono e ascoltano, dalle loro posizioni e distanze. Però il libro, e la voce che lo legge, ancora son tesi fra noi come una lunga fune di cordata.