Eccomi qua, finalmente mi sono decisa a ritagliarmi un attimo di tempo per me e iniziare questo post… Più ci penso e più sento che è la cosa giusta da fare, per sfogarmi un po’ con voi che riuscite a capirmi e che magari avete vissuto esperienze simili alla mia…
Ma, come ogni buon narratore che si rispetti, è giusto che io cominci la mia storia dall’inizio: come sapete, io e Giuseppe ci siamo conosciuti una decina d’anni fa (4 di fidanzamento e 6 di matrimonio).
Da subito, ho sentito la sua famiglia, soprattutto i suoi genitori, perché la sorella era una bimba quando l’ho conosciuta ma crescendo in un ambiente dove conta più apparire che essere… anche lei si è definitivamente “persa”, falsa come i soldi del Monopoli.
Visto che non pensavano che potesse essere una storia seria, e che magari non volessi restare al fianco di loro figlio perché “diverso” dagli altri, hanno cercato subito di mettermi a disagio, mostrandomi quello che possedevano: castelli di carta e tante chiacchiere, ma che fanno scalpore soprattutto per una ragazza che è cresciuta in una famiglia “normale” dove abbiamo dovuto anche tirare la cinghia e dove non sempre era facile mettere insieme il pranzo con la cena.
Il loro mondo, il loro modo di vivere così… mondano… mi hanno da subito fatto sentire in imbarazzo. Inadeguata. Per fortuna, ho la capacità di vedere oltre le apparenze ed ho capito che quello era un loro modo di fare per far passare in secondo piano che non è tutto oro ciò che luccica.
Mi hanno mostrato i loro 400mq di casa, si sono riempiti la bocca davanti alla bravura dei figli. Mi hanno raccontato (fino alla nausea) le mille e mille peripezie che hanno dovuto affrontare con Giuseppe. Perché nessuno credeva in lui. Perché ormai era dato per spacciato. Perché tanto era considerato solo un peso dal resto della famiglia. Un inutile cieco. Oh sì… non esagero… E’ ciò che mi hanno raccontato e che raccontano gonfiando il petto orgogliosi, come fanno di Rebecca dicendo che quando è nata era solo 800gr. E io sorrido glaciale correggendo il tiro: “mah… veramente non era solo 800gr, ma un 1.090 che è un po’ diverso”.
Purtroppo, l’accanimento peggiore, è sempre stato su Giuseppe perché, come ho già raccontato, non ha avuto un’infanzia comune ed ha dovuto lottare parecchio per essere considerato “una persona normale”. Lui mi ha sempre raccontato che la sua famiglia lo metteva in mostra come una scimmietta ammaestrata, e questo l’ha sempre fatto soffrire molto.
Ho così tanti sassolini da togliere, che non so bene da parte cominciare.
Mi sembra che ho già avuto modo di raccontarvi che la famiglia di mio marito ha origini siciliane.
Mio suocero, è venuto a vivere in Toscana che aveva solo 40gg di vita; mia suocera è cresciuta a Palermo e lei continua a parlare bene il siciliano come io il toscano (il mio non è un toscano puro, è un toscano un po’ imbastardito dal romano visto che il paese dove sono cresciuta è vicino al Lazio).
Da quando la nostra storia è iniziata, ho cominciato a notare degli strani comportamenti primo tra tutti quello di mia suocera che improvvisamente iniziava a parlare a tavola in dialetto stretto.
Non che se avesse parlato più lentamente io sarei riuscita a capire qualcosa, ma in quel modo sembrava quasi volesse escludermi dalla conversazione.
E la situazione peggiorava in presenza di sua mamma, venuta a mancare un mesetto prima del matrimonio, perché con lei parlavano quasi esclusivamente in siciliano senza pensare che magari io potessi sentirmi esclusa dalla conversazione.
Ho fatto notare la cosa a Giuseppe e lui mi ha detto che non dovevo reagire in quel modo, perché parlare davanti a me in dialetto era farmi sentire membro della famiglia.
Io l’ho guardato con gli occhi sgranati e mi sono sentita presa per i fondelli. Ma come… sai che non capisco una parola di ciò che dici… ti faccio notare che sono a disagio… e tu continui a parlare in palermitano come se niente fosse?
A quel punto, allora, ho iniziato la mia prima battaglia (mi sento tanto Don Chisciotte): finché parlano in dialetto io non partecipo alla conversazione. Mi sono rifiutata di provare ad imparare anche i termini più elementari, perché ho notato che parlano in dialetto quando non vogliono che io capisca determinati discorsi. Se non devo capire cose importanti, che magari riguardano la mia famiglia (io, Giuseppe e Rebecca) non vedo perché dovrei sforzarmi di capire quelli meno importanti di conversazione generale.
Io sono fatta male. Ho davvero un brutto carattere. Vi basti pensare a cos’ho fatto durante un pranzo di Pasqua. I miei genitori non erano potuti venire, erano andati a trovare la sorella più piccola di mia mamma per passare la Pasqua e la Pasquetta con lei.
Io e Giuseppe dovevamo ancora sposarci e, dopo aver passato il Natale con la mia famiglia, abbiamo trascorso la Pasqua con la sua e il fratello più grande di mia suocera e la figlia.
Per tutto il pranzo, non hanno fatto altro che parlare in dialetto. Hanno parlato e riso di un sacco di cose che io ancora ignoro, perché nessuno si è degnato di tradurmi ciò che dicevano o spiegato il perché ridevano. Forse ricordavano i bei tempi di quando erano bambini. Oppure raccontavano di quando i figli erano più piccoli e delle marachelle che combinavano… Chi lo sa…
Io sono stata per tutto il tempo a fissare il piatto, oppure a guardare il nulla alla TV.
Ad un certo punto, dopo l’ennesimo scoppio di risa al quale io non ho partecipato, si gira Giuseppe e mi chiede se mi sento male. Stringendomi nelle spalle, rispondo: “ma per me quand’è che passano i sottotitoli?”.
Nella stanza è calato un gelido silenzio. Erano tutti imbarazzati. Mentre io cercavo di guardarli negli occhi, loro sfuggivano le mie occhiate, trovando più interessante ciò che avevano nel piatto piuttosto che provare a rispondere alla mia domanda; e, pensate un po’, dopo la mia battuta acida hanno smesso di parlare in dialetto.
Scusate se vado a ruota libera… ma non riesco a dare un senso logico e togliermi i sassolini dalla scarpa in questo modo liberatorio mi fa sentire molto più leggera…
Vi racconto anche questa: quando abbiamo annunciato che volevamo sposarci, dopo il momento di shock iniziale, mia suocera ha avuto il coraggio di dirmi che loro assolutamente avrebbero dovuto invitare non so bene quante persone.
Io l’ho guardata, ho sorriso ed ho risposto: “non c’è problema, ognuno paga i suoi invitati”. Se pensava di mettere a tavola tipo 700 persone e che dovevano pagarle i miei genitori… ha proprio sbagliato indirizzo.
Al che, lei e suo marito (scommetto guidati da Giuseppe), hanno iniziato a fare bene i conti ed hanno tagliato di parecchio il numero degli invitati.
Comunque, erano sempre 100 loro contro 50 (compresi i parenti) dei miei.
Mia suocera (che sembra una piovra perché vuole tenere tutti sotto il suo stretto e ossessivo controllo e più stringe e più io mi allontano) avrebbe voluto imporci la scelta della Chiesa; del Ristorante; di dove andare a fare le foto. Insomma, voleva essere lei esclusivamente lei la protagonista di quel giorno importante.
Ma l’ho sputata io su tutto. Per fortuna sono riuscita a far ragionare mio marito ed insieme abbiamo scelto ciò che piaceva a noi e ciò che rendeva noi felici, anziché ascoltare le campane degli altri con i loro suggerimenti imbarazzanti e fuori luogo.
Quando siamo andati a scegliere le partecipazioni e le bomboniere, Giuseppe ha voluto che fossero presenti anche i nostri genitori.
Per lui, era una scelta obbligata perché non avendo la patente non poteva di certo raggiungere il negozio da solo.
La proprietaria del negozio, una signora molto gentile e paziente, ci ha fatto vedere il catalogo. In meno di 5 minuti, abbiamo scelto la partecipazione: elegante nella sua semplicità, non ci abbiamo speso molto perché tanto le partecipazioni finiscono sempre nel cestino dei rifiuti e non aveva senso spenderci troppi soldi.
Abbiamo preferito spendere un po’ di più sulle bomboniere, soprattutto quelle destinate agli zii; ai genitori ed ai testimoni.
Anche sulle bomboniere, non avevamo adocchiato subito quello che ci piaceva. Erano intenti a guardare quando sua madre esclama “oh… guarda Giuse… queste sono perfette”.
Adesso non ricordo bene cos’erano, che forma avessero cioè. Ma posso assicurarvi che erano nel suo perfetto stile pacchiano. Mia suocera è il perfetto contrario di come sono io.
Io sono per le cose semplici e leggere. Lei è per le cose pompose e pacchiane. (Potesse, agghinderebbe mia figlia come una bomboniera tutti i giorni).
Erano degli oggetti in vetro soffiato, se non ricordo male, tutti infiocchettati che a mala pena si capiva la forma con dei ciondoli in madreperla orrendi. Vistosi. Pacchiani.
Mi è venuto il voltastomaco appena li ho visti. E mio marito non faceva niente per metterla a tacere.
Anzi. Le dava spago. Sembrava che anche a lui piacessero quelle oscenità. Chissà, forse reagì in quel modo per abitudine. Per tutta la vita lei aveva scelto al posto suo ed ancora non si era attivato in lui il meccanismo “bloccante”.
Dato che la mia parola non veniva neanche presa in considerazione e visto che avrei speso i miei soldi per pagare quelle cose che mi vergognavo a guardare, gli ho detto che io e i miei genitori andavamo via tanto c’era sua mamma a scegliere; aveva deciso lei cosa doveva piacermi io cosa ci stavo a fare lì.
Le mie parole devono averlo sbloccato. Ha messo “a cuccia” sua madre ed abbiamo scelto in tutta serenità le nostre bomboniere. Delle bellissime mini-cornucopie in Swarovski (o una sua buona imitazione).
E da lì, è sempre stato un continuo tira e molla.
Lui non riesce a staccare il suo cordone ombelicale e sua mamma continua ad avere un forte potere su di lui.
Purtroppo, mio marito non ha ancora capito quali sono le sue priorità. Per lui è più importante passare del tempo con mammina e papino, piuttosto che con sua figlia e con me.
Ho provato a fargli capire che siamo noi la sua famiglia, ma è ancora molto sordo da quell’orecchio.
E lei è ancora troppo onnipresente e pesante nella sua vita.
Lo comanda e lo gestisce come se fosse un incapace, quando abbiamo portato a casa Rebecca era scocciata anche dal fatto che fosse suo figlio a darle il latte o a prepararlo perché aveva paura che non ne fosse capace.
Quanta rabbia ho dentro. Sono tutte cose che sto mettendo dentro un baule e che tirerò fuori al momento giusto.
In questo momento non posso. Mi sento ospite in casa mia ed è una brutta sensazione.
Stiamo risparmiando per comprarci casa per conto nostro. E io non vedo l’ora di andarmene da qui.
Da queste persone che non mi hanno mai aiutato con il cuore. Che mi hanno fatto pesare ogni singolo gesto. Che mi hanno fatto pesare che per mesi hanno fatto tanti km per venirci a trovare in Ospedale, non pensando mai neanche per un secondo a me, a come potessi stare io da sola.
Anche se la convivenza è dura, io stringo i denti e sono contenta di essermi sposata nel 2006; se avessi aspettato un anno per comprare casa per conto nostro, non mi sarei più sposata perché la cara cognatina si è fatta ingravidare dal suo fidanzato ed hanno dovuto fare un matrimonio riparatore perché questo bambino non poteva nascere nella vergogna.
Ergo, quei pochi soldi che avremmo risparmiato (che avrebbe risparmiato mio marito) sarebbero finiti nel calderone comune e sarebbero stati spesi per sposare la sorellina mettendo noi, ancora una volta, in secondo piano.
E qui mi fermo, Rebecca mi gira in torno a mo’ di squaletto. Forse è il caso che vada a preparare la cena…
Belle signore e cari signori (ovviamente la vostra presenza è gradita se volete partecipare alla discussione), io ho lanciato il sasso… anzi… mi sono iniziata a togliere i primi sassolini dalla scarpa…
E, come diceva sempre mia nonna materna dopo avermi raccontato una favola, “stretta la foglia e larga la via… dite le vostra che io ho detto la mia…”